Intervista all'autore Marco Rovelli. Edito da Minimun Fax, il volume approfondisce il disagio psichico nella società degli individui
di Katia Turri
IMOLA - La depressione, dicono, è la malattia del ventunesimo secolo. E stanno emergendo nuove forme di disagio psichico. Questo «contagio», cui la pandemia ha fatto da moltiplicatore, ci dice molto sulla natura della nostra civiltà ipermoderna e neoliberale. Grazie a una ricerca incentrata sulle testimonianze dirette di chi dal disagio psichico è stato travolto e di chi si sforza ogni giorno di comprenderlo e curarlo, “Soffro dunque siamo” di Marco Rovelli (Minimun Fax) mostra la profonda connessione esistente tra le nuove psicopatologie e una società «degli individui» in cui vige l'imperativo della prestazione e della competizione. La parola all'autore.
Perché ha sentito la necessita di scrivere questo libro?
«L'idea per la scrittura di questo libro è nata dalla percezione del disagio psichico dilagante. L’infelicità comune è una questione politica tipica della nostra epoca, e con “politica” intendo la vita di relazioni di una determinata comunità di uomini. Negli ultimi decenni c’è stata una profonda de-politicizzazione nel disagio psichico, nel senso che si soffre da soli. La sofferenza è diventata una questione privata, e la persona che soffre viene tagliata fuori dalla società neoliberale. Questa trasformazione economica e antropologica, che investe ogni aspetto delle scienze umane, avvenuta negli anni Ottanta, può essere riassumibile nel motto di Margaret Thatcher: “La società non esiste, esistono solo gli individui”.
Quindi è una questione di carenza di relazioni?
«Ciascuno di noi è indotto a credere che la sofferenza riguardi solo l'individuo. Il problema, però, è che noi essere umani viviamo di relazioni. Le dimensioni sociali e politiche sono ciò che costituiscono la nostra natura profonda. Non esiste un individuo isolato dal suo ambiente, dal suo contesto famigliare, educativo, economico: tutti fattori che vanno a determinare la nostra natura, perfino il nostro genoma. Le scienze cognitive e la neurobiologia interpersonale lo dicono: siamo definiti e ridefiniti dalle nostre relazioni ambientali e la sofferenza stessa non può essere compresa al di fuori di questa natura relazionale».
Lei sembra dare molto importanza ai fattori sociali...
«Sì. E anche la psichiatria soffre di una patologia della relazione, perché non sa di fatto pensare alla difficoltà relazionale e quindi fonda la sua pratica su due pilastri essenziali che sono la diagnosi e la farmacoterapia, tralasciando tutto il resto. E tralasciando di porsi la domanda fondamentale: “Qual è il senso della sofferenza che viviamo?”».
Lei afferma che c'è una connessione tra le nuove psicopatologie e la società degli individui. Come lo spiega?
«La connessione tra le varie sofferenze e la società è un dato di fatto ormai accalorato dalle stesse scienze. Ci sono alcune forme di sofferenza che si trovano trasversalmente in vari spazi e in vari tempi, anche se modulate in modo diverso, e altre psicopatologie che non sono sempre le stesse, tanto che ogni società ha le sue. Pensiamo a Freud che ha inventato la psicoanalisi lavorando con l’isteria femminile. Oppure pensiamo al disturbo di conversione in una società basata sulla legge dei pari, che assegnava ruoli e identità di genere ben definiti, confini ben disegnati. Tutte patologie che erano espressione dell’insostenibilità del tipo di ruolo storico e sociale assegnato. Oggi quel tipo di società non esiste più».
E oggi invece?
«Non viviamo più nella società di Edipo, dove volere trasgredire quei limiti e averli trasgrediti produce un senso di colpa, ma viviamo in una società in cui la contraddizione del nostro io non è più divieto o trasgressione. In questa società si può fare tutto, tutto dipende da noi e ciascuno è responsabile del proprio destino, del proprio successo e del proprio fallimento. Nella “società degli individui” siamo chiamati a pensarci come imprenditori di noi stessi e dobbiamo investire su noi stessi per avere successo. Se non siamo all'altezza veniamo lasciati a casa e scatta il fallimento, che è l'incubo di tutti».
Ci fa qualche esempio?
«Nei giovani il sentimento più diffuso è la vergogna, l’essere preso in giro dalla società. Pensiamo alla ragazza di 19 anni di Milano che si è suicidata nel bagno dell'università lasciando un biglietto con scritto “La mia vita è stata un fallimento”. Nel libro racconto alcuni disagi dei giovani come l’anoressia e il ritiro sociale, che hanno entrambi una dimensione prestazionale e di confronto con gli standard imposti. I giovani hanno però anche una grande consapevolezza: hanno occupato i licei per rivendicare la salute mentale, non era mai successo. Anche loro dicono basta con ansia e disagio psichico».
L'autore. Marco Rovelli è cantautore, narratore e saggista. Come scrittore ha pubblicato i reportage narrativi “Lager italiani” (BUR 2006), “Lavorare uccide” (BUR 2008), “Servi” (Feltrinelli 2009), vari romanzi e alcune raccolte di poesie. Per Minimum fax ha già pubblicato “Siamo noi a far ricca la terra. Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi” (2021).